Morto a Cantalice “Zanzarone” Alessandro D’Ortenzi: fu il tratto d’unione tra Banda della Magliana ed eversione nera

Morto a Cantalice, coi funerali celebrati a Madonna del Cuore, Alessandro D’Ortenzi, 77 anni, per tutti “Zanzarone”: era il tratto d’unione tra la Banda della Magliana e l’eversione nera. Il Corriere della Sera tratteggia la sua figura.

(dal Corriere della Sera) Era un malavitoso vecchio stampo, di quelli che all’ennesimo arresto, quando si presentavano nel cortile della questura con gli «schiavettoni» ai polsi, rallegravano i cronisti per le battute a raffica. Un armadio alto quasi due metri. Esperienza da rapinatore, ricettatore, trafficante di armi e soprattutto trait d’union tra la banda della Magliana e il mondo dell’eversione nera. Alessandro D’Ortenzi, 77 anni, per tutti «Zanzarone», è morto giovedì 17 febbraio nella zona di Cantalice (Rieti), provincia nella quale ha vissuto dopo gli anni giovanili, lui nato e cresciuto a Roma, nell’ambiente dei testaccini. Funerali in gran segreto alle 14.30 di venerdì 18 presso la parrocchia di Madonna del Cuore, a Rieti.

«Abbatì, sei un pagliaccio! Tu non contavi niente!» La popolarità di «Zanzarone», che si considerava una specie di vecchio zio e consigliere dei boss della generazione a lui successiva, quella dei De Pedis, dei Giuseppucci, degli Abbruciati, tutti finiti «a bocca sotto» sull’asfalto, esplose negli anni ‘90. A renderlo noto al grande pubblico, gli exploit in romanesco (e le zuffe con i suoi nemici giurati) durante il maxi processo ai 97 imputati della «bandaccia», iniziato il 3 ottobre 1995 nell’aula bunker del Foro Italico. I faccia a faccia tra il pentito Maurizio Abbatino e gli imputati dietro le sbarre, capitanati da «Zanzarone», letteralmente fuori di sé per le «spiate di quell’infame», sono rimaste nell’aneddotica della «mala» romana.

Una sfuriata in particolare, il 4 giugno 1996, costrinse il mite e incredulo presidente della Corte d’assise, Francesco Amato, a sospendere l’udienza. «Buffone!», aveva gridato Abbatino appena se l’era trovato davanti. «A me questo non me lo puoi di’ , presidente, lo riprenda!», aveva urlato D’ Ortenzi, un attimo prima di lanciarsi nel suo show, parlando di sé in terza persona, come ogni mammasantissima che si rispetti: «Pagliaccio, tu non contavi niente. Se vuoi fare il confronto con “Zanzarone” devi ‘ sta calmo perché c’ hai un’ intelligenza inferiore… Portami rispetto perche’ “Zanzarone” è una garanzia, non ha mai fatto carcera’ nessuno…”. Il tutto sotto gli occhi dei compari che lo guardavano ammirati da dentro le gabbie. «Bravo, lo sta a sistema’ per benino quell’infame…».

Poi, sia dal maxi-processo sia dai successivi verdetti giudiziari, «Zanzarone» uscì assolto. Il suo, d’altronde, non fu mai un ruolo «organico» alla banda della Magliana, ma di fiancheggiatore e insieme di «consulente» per certi servizi forniti. Primo tra tutti l’aver presentato ai vertici della holding criminal-finanziaria che insanguinò Roma per quasi due decenni il suo amico di vecchia data Aldo Semerari, psichiatra forense, noto anche come il «criminologo nero», spesso utilizzato da capi e sottopancia della banda per ottenere perizie psichiatriche compiacenti, utili a uscire dal carcere o ad attenuarne i rigori. Con Semerari (che finirà decapitato nel 1982 a Napoli, testa mozzata con la sega abbandonata in una Fiat 128) D’Ortenzi negli anni ‘70 divise anche i piani eversivi, partecipando a summit segreti nella casa del criminologo a Castel San Pietro (Rieti), assieme a esponenti di estrema destra e frange deviate della politica e dei servizi segreti. «Certo non giocavamo a briscola, era il momento del terrorismo rosso e noi puntavano a destabilizzare il Paese», racconterà anni dopo.

Ma «Zanzarone», al di là dei modi spicci se c’era qualche «sgarro» da risolvere e dell’abilità nel tessere trame attraverso contatti di peso, nel milieu romano si era guadagnato rispetto anche per la sua «impresa» giovanile legata all’alluvione del 1966, allorché, mentre era recluso nel carcere di Firenze, invece di approfittare del cataclisma per evadere si adoperò per salvare altri detenuti, rimasti intrappolati nelle celle. Per questo ricevette la grazia e un encomio dal presidente della Repubblica: non poteva immaginare, Giuseppe Saragat, che quel carcerato-modello tanto altruista sarebbe presto diventato il leggendario «Zanzarone», ultimo gangster sopravvissuto alle «mattanze» della banda che fu.

Foto: CdS ©

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