Il deputato reatino Alessandro Fusacchia (Gruppo misto) ha scritto e pubblicato una lettera rivolta ai suoi concittadini. La pubblichiamo integralmente.
Care reatine, cari reatini,
col 2020 non è iniziato solo un nuovo anno, ma un decennio intero. Da giorni sto lentamente facendo un bilancio dei miei ultimi dieci anni, e soprattutto ragionando sui propositi per i prossimi dieci. Si può essere infatti più coraggiosi sapendo di avere un decennio a disposizione.Ma si deve pure scegliere bene: perché dieci anni sono un bel pezzo di vita, e i propositi vanno scelti con cura.
Tra questi propositi che sto facendo c’è Rieti. Voglio confessarvelo subito: non c’era, dieci anni fa. All’inizio degli anni ’10 stavo per trasferirmi a Bruxelles con la prospettiva di restarci a lungo. Decisamente più di un decennio. Rieti era la città dove ero nato, andato a scuola, dove continuavano a vivere i genitori, gli zii, un bel po’ di cugini. Era il punto di partenza, la città da cui venivo. Oggi è diverso. Da anni guardo a Rieti come ad un luogo di cui occuparmi e a cui dedicare sempre più attenzione e cura. Non è ancora il luogo dove sono tornato a vivere, ma è il luogo dove torno regolarmente, dove c’è la casa in campagna nella quale sono cresciuto, dove faccio visita a due genitori meno giovani di dieci anni fa. È probabilmente il luogo dove alla fine di tutto mi ritirerò definitivamente, ma solo a patto che questo ritiro non sia un cedimento alla nostalgia, ma qualcosa di vivo, di rinnovato.
1. Rieti sta appassendo— vogliamo dircelo senza tanti giri di parole?Lo sa ogni reatino che vive ogni giorno la città. Lo sa soprattutto ogni reatino che la città l’ha lasciata. È una città che sta vivendo da anni una vera emorraggia di giovani. Uno dei propositi che ho fatto per i primi mesi di questo nuovo anno è procurarmi i dati. Il lavoro promosso dal Vescovo Domenico Pompili con il progetto RiData è un buon punto di partenza. Quanti giovani reatini se ne sono andati, quanti hanno preso la residenza altrove, in altre parti d’Italia o fuori. Quanti sono altrove di fatto, anche se ufficialmente ancora a Rieti. Io credo che dobbiamo ripartire da qui. Arrivare ai numeri e impararceli a memoria.
Lo chiedo a chi sta a Rieti; e a chi invece è partito. Che cosa ciascuno di voi è disposto a fare per Rieti nei prossimi dieci anni? Giovani universitari, imprenditori, liberi professionisti, impiegati del Comune, esercenti, pensionati: ciascuno di voi. Con il cambio di anno, lo avete fatto un proposito che non riguardasse solo voi, ma la comunità allargata? Un proposito collettivo?
Un sogno da realizzare insieme nei prossimi dieci anni, ce lo abbiamo? E soprattutto: pensiamo che ci serva?
Non so cosa saremmo in grado di fare. Ma so che il Pianeta si è dato un’agenda ambiziosa da realizzare entro il 2030, che riguarda la costruzione di un mondo più sostenibile. Un’agenda probabilmente irrealizzabile, ma che indica chiaramente verso quale direzione andare. La maniera in cui abbiamo costruito lo sviluppo fino ad oggi non regge più. Semplicemente, non possiamo continuare come abbiamo sempre fatto. E non è un discorso astratto. Dalla mancanza di lavoro alla qualità dell’ambiente: tutto dipende dai nostri comportamenti. E quindi, in definitiva, da quanto siamo attrezzati — che poi vuol dire essere, allo stesso tempo, lucidi e capaci — ad affrontare il futuro. Questa è l’unica domanda che conti: ci interessa attrezzarci insieme? I cittadini di Matera lo hanno fatto. Sono passati da essere la vergogna nazionale alla capitale europea della cultura.
Dobbiamo chiederci cosa ciascuno di noi sia disposto a fare perché sono profondamente convinto che nessun territorio sia predestinato. Ma anche che nessun territorio si salverà per caso.
La differenza la farà il capitale umano. Non qualche politico più o meno capace. Ma ogni cittadino. Perché qualsiasi politico è impotente, se non c’è una domanda di riscatto che arriva da chi quel politico lo elegge. Scordatevi i salvatori della patria, e anche i salvatori di un piccolo Comune come il nostro. Invece, pensate a quanto potenti potremmo diventare tutti insieme, ben organizzati, partendo da ciò che di unico ha il nostro territorio — la sua storia, i suoi paesaggi, la sua cultura, la la sua acqua e la sua aria — e dall’organizzazione delle priorità di tutti i reatini attorno ad alcune sfide condivise per i prossimi dieci anni. Perché certo abbiamo bisogno di tenere pulite le aiuole e ricoprire le buche, ma abbiamo anzitutto bisogno di costruire le condizioni per cui tra dieci anni varrà ancora la pena vivere a Rieti.
2. Oggi siamo una città senza opportunità. Dove qualcuno sta meglio, qualcuno peggio, ma si tira comunque un po’ tutti a campare. Le opportunità si costruiscono. Nei prossimi dieci anni avremo più di un appuntamento. Ne prendo due, che avrebbero la potenza di due fari, a saperli accendere.
Nel 2023, gli 800 anni del primo presepe di San Francesco a Greccio: ci rendiamo conto dell’occasione strepitosa che abbiamo tra le mani — a maggior ragione con un Papa che si chiama Francesco?
Nel 2028 i 100 anni dell’inaugurazione della Supertessile (l’ex Snia Viscosa), che tuttora giace chiusa di fronte a quello che fu il primo Zuccherificio d’Italia, con il quale forma uno dei siti di archeologia industriale più belli del Paese: vogliamo davvero continuare ad avere quei muri e quelle reti invalicabili, a tenere quelle aree dismesse?
3. Sono arrabbiato e stufo. Di vedere Rieti che si lascia andare così; che aspetta solo che la profezia del suo declino si auto-avveri definitivamente.
Perché l’Italia è piena di posti che stavano peggio di noi, ma che hanno saputo trovare un sussulto, un moto di orgoglio condiviso.
E che sono riusciti a realizzare qualcosa di importante quando hanno capito che l’identità non è la protezione sotto teca di un passato idealizzato, ma ciò che oggi puoi ancora costruire. Progettare, fare, avanzare mese dopo mese, anno dopo anno. Questo è quello che definisce i tratti di una comunità. Senza questo senso di riscatto comune, non c’è identità; ci sono solo i rimpianti messi sotto formaldeide.
Da dove partiamo, allora? Non ho alcun dubbio: dalle nuove generazioni.
Partiamo dai nati nell’ultimo decennio, anzitutto. Dai più piccoli che vanno al nido o stanno a casa con le mamme e i nonni. O dai bimbi tra i 3 e 6 anni alla materna (e anche qui è inaccettabile che ce ne siano ancora alcuni che restano a casa). O dalle ragazze e dai ragazzi che vanno a scuola. Il primo e più importante investimento va fatto su di loro: creando opportunità, occasioni di apertura e scambio con il resto d’Italia e del mondo; facendo in modo che a Rieti vengano persone ad ispirarli. Creando luoghi complementari alla scuola, dove possano imparare il resto.
Con Movimenta nell’ultimo anno abbiamo sperimentato una Scuola di Politica per Giovani Donne. Con cui insegnare alle ragazze tra 13 e 18 anni che non sono seconde a nessuno; che ciascuna di loro potrà fare cose strepitose; che una di loro potrà un giorno essere la prima donna a mettere piede su Marte. Abbiamo fatto una prima edizione a Favara, nel cuore della Sicilia. Da fine febbraio la replicheremo a Napoli, e da settembre partiremo anche in altre città. Mi piacerebbe portare anche a Rieti questo corso di ribellione alle idee sbagliate. Farebbe bene anche a parecchi genitori.
Allo stesso tempo, l’investimento sui più giovani si fa mettendo al centro le persone a cui li affidiamo ogni giorno per un numero significativo di ore. Le insegnanti e gli insegnanti della nostra città — a partire da coloro che sono arrivati da fuori, per pochi anni o addirittura un anno solo, e che quindi portano per definizione una storia diversa e uno sguardo nuovo — sono uno dei patrimoni più preziosi su cui investire. Possiamo aspettare il Ministero di turno. Oppure possiamo inventare noi strumenti, modalità, occasioni per assicurare che siano valorizzati, che sentano appieno la missione sociale che compiono, lo stimolo a migliorarsi ogni giorno, l’apprezzamento quando svolgono un lavoro di qualità.
Bisogna poi mettere mano all’università, perché diventi un luogo capace di attrarre giovani anche da tutta Italia (e oltre), e al tempo stesso serva il territorio integrando ciò che abbiamo di più caratteristico — e con maggior potenziale di sviluppo. Sono anni che un romano residente a Viterbo, Alessandro Ruggieri, ha preso a cuore il territorio di Rieti come se fosse un reatino. Ci sta provando in tutti i modi a darci una mano, prima come rettore dell’Università della Tuscia, adesso come professore che ha per le mani un bel progetto di agricoltura digitale, perfettamente integrabile con la riqualificazione dello Strampelli. La Regione Lazio ha dato di recente un segnale inequivoco, stanziando risorse, e il MIUR continua a seguire la vicenda ed è probabilmente vicino a sbloccare lo stallo che si è creato, per l’insipienza di più di un reatino e non certo per qualche carenza ministeriale. Ma la pazienza di tutti ha un limite. Dobbiamo fare in modo che queste studentesse e questi studenti (e con loro tutti i giovani della città) anche crescendo a Rieti possano comunque essere un’avanguardia. Perché ciò accada — perché non arrivino a 18 anni già distaccati di una distanza incolmabile dai loro coetanei di altre città d’Italia o d’Europa — dobbiamo aprire questa città, esporla alle novità, a ciò che accade nel mondo, dobbiamo darle una strategia per attrarre i non reatini a venire, sostare, magari stabilirsi, reinventarsi da noi perché certe cose può offrirle solo il nostro territorio.
Nel mondo di oggi, la cosa più potente che hai per attrarre in luogo qualcuno sono le altre persone che in quel luogo ci sono già, o le altre che sono in predicato di venirci. Sono ciò che queste persone fanno, l’energia che sanno generare.
C’è una cosa che accomuna tutti i centri urbani del mondo: ti bastano 500, al massimo 600 metri di passeggiata per capire se quella che stai attraversando è una città che muore, o una città che ha deciso di rinascere. Ricordate la storia dei buoni propositi con cui abbiamo cominciato? Non quelli personali che ciascuno di noi fa sulla famiglia o sul lavoro. Ma quelli legati a cosa ci riproponiamo di fare per la città. Tutto dipende da noi. Dall’attaccamento di ciascuno di noi a Rieti. Non quello comodo, però. Non quello da telecronisti. Ripeto la domanda: che cosa siamo disposti a fare per mettere il nostro territorio, nei prossimi dieci anni, su un binario di sviluppo come mai sperimentato prima? Perché qui non c’è bisogno di fare un pochino meglio. Di un pochino meglio non ce ne facciamo niente. Qui c’è bisogno di fare molto di più; soprattutto, di fare molto diversamente.
4. C’è un posto dove sono custoditi progetti di sviluppo turistico inviati da reatini al Comune nel corso dei decenni. Un grande ascensore panoramico esterno al palazzo del Comune. Un progetto imprenditoriale per recuperare dal guado gli antichi colori amaranto e celeste. Fino a cose mirabolanti. Un’enorme statua di San Francesco (o era forse Sant’Antonio) all’inizio della Salaria. Alta 900 metri. Con un enorme ristorante nella corona del santo, dal quale vedere Roma nelle giornate senza foschia. Oppure un canale per portare a Rieti il mare. Non so dove sia questo posto, magari un archivio dimenticato in qualche stanza del Comune. Me ne parlò un consigliere comunale tanti anni fa. Volevo scovarlo, scriverci un romanzo oppure un saggio di antropologia. All’inizio non l’ho fatto, pensando che magari si fosse inventato tutto quella sera. Poi la vita mi ha portato altrove. Per anni ho pensato che ci sarebbe stato da ridere. 900 metri. Il mare. Oggi penso alla magia di cui, come reatini, saremmo capaci.
Insieme ad assicurare che i nostri minorenni ricevano la migliore istruzione possibile e siano a 18 anni potenti, veloci, generosi, curiosi, serve costruire un ecosistema dove chiunque voglia (che sia giovane o meno) possa mettersi in gioco, sperimentare, fare impresa, sbagliare, imparare.
Per questo serve un luogo all’altezza — la Supertessile, l’ex Zuccherificio –, che aiuti a costruire connessioni di senso tra i diversi progetti ospitati; serve ragionare su come si raggiunge la massa critica; e serve che la città funzioni anche fuori da quel luogo.
5. Un appello voglio farlo ai reatini che vivono fuori dalla città. A contarli si finisce facilmente a parlare di diaspora.
La diaspora dei reatini nel mondo.
Sono stato — e per molti aspetti ancora sono — uno di loro. So cosa vuol dire sentire che manca l’aria; avere voglia di un orizzonte più vasto, di scoprire cos’altro offre il mondo che la tua città non ha. E però so anche cosa sia l’attaccamento alla propria terra; le radici: ci ho scritto un romanzo di quasi 500 pagine; e sono cresciuto in campagna a pochi chilometri dal centro di Rieti, in un casale che mio nonno comprò assieme ad un po’ di ettari di terra, stalle, e una chiesetta dove ogni anno a fine luglio viene celebrata una messa con tutti i parrocchiani di Santa Barbara in Agro. Una chiesetta del 1626. Quattrocento anni nel 2026.
Nel corso degli anni ci siamo inventati tante cose diverse per sapere chi fossero, dove si trovassero, come rimpatriarli — questi reatini fuoriusciti. Sbagliati i mezzi, sbagliato il fine.
Abbiamo una rete potentissima di giovani e diversamente giovani che nella stragrande maggioranza dei casi sarebbero ben felici di dare una mano a Rieti da dove stanno. Ma che non si mobilitano per una mappatura, perché qualcuno a Rieti interessa sapere dove siano finiti. Si mobilitano per una visione e se hanno modo di poter mettere la loro storia, ancora prima che le loro competenze, a servizio di un grande progetto comune. A ciascuno di loro va chiesto di contribuire con un pezzetto specifico ad una delle sfide che il nostro territorio deve darsi per uscire dalla manutenzione ordinaria.
Da mesi mi immagino una lunga giornata al teatro Flavio Vespasiano, con reatini che vivono in giro nel mondo ad alternarsi per 15 minuti ciascuno sul palco, da soli, con tutti zitti in platea e sugli spalti, e loro a raccontare la storia incredibile che negli anni hanno vissuto, il quartiere di Rieti o il paesino della nostra provincia dal quale sono partiti, il mestiere che fanno adesso, la cosa più importante che hanno imparato. Pensate a chi improvvisamente scopriremmo tutti noi di essere. Alberto Salvati. Una cinquantina d’anni. Occhi accoglienti, un sorriso caldo, capelli schiacciati come chi tiene spesso una berretta, una barba lunga e bianca pronta per la parte di Babbo Natale. Tra qualche mese sarà a capo della 36esima spedizione italiana in Antartide. È di Cottanello. In uno dei tre posti più isolati al mondo, a 3.200 metri, ha già piantato sul ghiaccio antartico un cartello che indica la direzione per Cottanello. 15.140 km.
Può succedere qualsiasi cosa ad un ragazzino che sente un racconto potente.
Se può immedesimarsi, perché quel racconto parla di qualcuno che tanti anni prima è andato nella sua stessa scuola, allora aumentano drasticamente le probabilità che succeda. Decidiamo insieme chi sono gli altri che vogliamo vedere salire su quel palco.
6. Sono pronto a salirci anch’io, su quel palco, ma solo per presentarli uno dopo l’altro. Una dopo l’altra. Tra i miei propositi per il prossimo decennio Rieti c’è. Ma so che resterà sulla carta se non sarà anche il proposito di molti di voi.
Contiamoci.
Partiamo con un grande esercizio di risveglio collettivo. Un grande gioco.
Passiamo qualche mese a fare domande agli altri concittadini di Rieti. Capiamo di cosa stiamo parlando capendo con chi stiamo parlando.
Siamo meno di 50 mila nel Comune di Rieti. Poco più del triplo se consideriamo tutti i 73 comuni della provincia. Abbastanza per fare qualcosa che venga raccontato nel tempo — e nello spazio — ma solo se sarà unico, se non chiederà permesso. Con questi numero non saremo neppure costretti a decidere chi lasciare fuori. O indietro. Reinventiamoci i servizi pubblici locali. La cooperazione. La partecipazione.
Diamo una missione ai ragazzi che studiano. Ridiamo un senso alle giornate di tanti pensionati reatini. Facciamo di Rieti la città-sorpresa dei prossimi dieci anni.
L’antropologa Margaret Meade ha scritto: “non dubitare mai che un piccolo gruppo di cittadini coscienziosi ed impegnati possa cambiare il mondo. In verità è l’unica cosa che è sempre accaduta”.
Che cosa siamo disposti a fare per Rieti? Affinché diventi il posto più elettrizzante, inclusivo, e bello che abbiamo mai potuto immaginare. Abbiamo una Scuola di Politica per Giovani Donne da far partire. Un Teatro da prenotare, allestire, un palinsesto da costruire. Ci sono centinaia di reatini da contattare.
C’è il resto che decideremo. Il resto che verrà.
Se anche voi avete fatto dei propositi, mettiamoli insieme. Se non li avete ancora fatti, affrettatevi.
Basta una mail a [email protected] e ci vediamo presto. E se nel frattempo qualcuno vi dice che non c’è fretta, che il decennio è appena iniziato, rispondete che il decennio è già iniziato, il contatore dei giorni già partito.
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