Carlo Vittori se n’è andato alla vigilia di Natale. È stato il più grande allenatore italiano di atletica leggera, maestro della velocità, e ha legato il suo nome ai successi di Pietro Mennea. Per ricordarlo, riproponiamo l’intervista che il patron di RietiMeeting Sandro Giovannelli, grande amico sia di Mennea che di Vittori, rilasciò due anni fa al giornalista reatino del Corriere della Sera Valerio Vecchiarelli, nel giorno della scomparsa della Freccia del Sud. Si parla anche di tutte le volte che proprio Giovannelli, al tempo dell’Alco Rieti, ha riportato la pace tra Vittori e Mennea.
(da corriere.it, 21 marzo 2013) ROMA – Ha determinato da dietro le quinte mezzo secolo di storia dell’atletica italiana, Sandro Giovannelli è forse l’ultimo grande dirigente di una generazione che non c’è più e che ha sempre messo l’atleta al centro dell’universo sportivo. Commissario tecnico della nazionale femminile negli anni ’80, addetto al settore internazionale della Fidal ai tempi di Primo Nebiolo, responsabile del settore tecnico della Iaaf fino ai tempi nostri, organizzatore senza soluzione di continuità dal 1971 a oggi del Meeting Internazionale di Rieti. Per lui Pietro Mennea era un figlio, o un fratello minore. Da Montecarlo, dove collabora ancora con la Iaaf, risponde al telefono con la voce incrinata dall’emozione: «Mi ha chiamato questa mattina dalla Polonia Ottavio Castellini (per anni responsabile del settore statistico della Federazione Internazionale, ndr) e mi ha detto che aveva letto su internet la notizia. Sono rimasto di ghiaccio, con Pietro ci siamo incrociati spesso, ma mai aveva accennato alla sua malattia. Oggi provo a giustificare il suo silenzio: un po’ per l’eccezionale riservatezza che lo ha sempre contraddistinto, un po’ perché non poteva accettare di essere tradito da quel fisico che aveva dominato, al quale aveva chiesto cose oltre l’impossibile. Tutto poteva succedere, ma non che Pietro Mennea non fosse padrone del proprio fisico».
RICORDI DI UNA VITA – Difficile mettere in fila i ricordi di una vita passata insieme: «Così alla rinfusa mi vengono in mente un mare di istantanee. Dopo il record del mondo di Città del Messico andammo prima a Tokyo per l’Otto Nazioni, poi in Cina, poi negli Stati Uniti, anche per sfruttare il momento d’oro. Ho qui davanti a me l’immagine di Mennea che correva sulla pista del Santa Monica in mezzo a Steve Riddick e Steve Williams, due colossi neri. E pensavo: ma guarda ‘sto nanetto bianco, sembra capitato lì per caso, quasi uno scherzo della natura. Neanche a dirlo, vinse lui».
LA CULTURA DELL’ALLENAMENTO – La cultura del lavoro e un carattere difficile: «Tante volte sono dovuto intervenire per sanare i dissidi con Carlo Vittori. Quante volte smettevano di parlarsi e bisognava lavorare di diplomazia perché riprendessero a comunicare. Allora lo andavo a trovare a Formia dove faceva vita monastica e scoprivo che faceva di testa sua, lavorava più di quanto gli fosse richiesto dai programmi sovrumani imposti da Carlo Vittori. Per lui l’atletica era tutto, per noi e per tanti ragazzi della sua generazione è stato un esempio di come con la volontà si potessero raggiungere traguardi incredibili».
QUEL GIORNO A PRAGA – Altri ricordi: «Praga, campionati Europei del 1978. Pietro ha già disputato otto gare, è stremato. Viene da me Carlo Vittori e mi dice di non avere il coraggio di chiedergli un ultimo sforzo: l’Italia è in finale nella staffetta 4×400, lo staff tecnico vorrebbe far correre una frazione a Pietro. Prendo il coraggio a due mani e vado nella call room, lo vedo senza scarpette che sta riprendendo fiato dopo la staffetta veloce. Gli chiedo una prova di orgoglio, mi guarda con odio e mi dice che Mennea non è l’acquasantiera dell’atletica italiana. Vado via convinto di aver fallito la mia missione, mi giro un’ultima volta e lo vedo che sta rimettendo le scarpe chiodate. Corse una frazione esaltante e fu da traino per tutta la squadra». «Nel 1972 avevamo messo su una società, l’Alco Rieti, e lui dava tutto anche per i campionati italiani di club, correva tutto quello che c’era da correre per portare punti alla causa, anche contro il volere di Vittori. Molti pensavano fosse un egoista, per me è stato un uomo generosissimo. A modo suo, bastava sapere girare intorno agli spigoli e scoprivi una grande umanità».
LA PRIMA MACCHINA A 28 ANNI – L’atletica, la sua vita: «La prima macchina gli fu regalata dall’Iveco quando già aveva vinto molto. Era una Fiat 132 grigia con la scritta dello sponsor sugli sportelli. Fino allora lo andavamo a prendere o cercava passaggi per andarsi ad allenare». Il giorno del record del mondo a Città del Messico: «Quel giorno è indimenticabile, dopo la gara Pietro aveva tanta adrenalina in corpo che avrebbe potuto correre altre 10 volte. Voleva telefonare a casa, ma non c’erano i cellulari e soprattutto provavamo a dirgli che doveva fare i conti con il fuso orario. Alla fine trovammo un telefono, ci rimase attaccato più di un’ora. Penso chiamò tutta Barletta, urlava in dialetto la sua gioia, noi non capivamo una sola parola. Mi rimase impressa la forza che ancora aveva dopo un’impresa del genere. Ciao vecchio amico, grande campione».