Il racconto che Ines Millesimi (Cai Rieti) fa della spedizione dell’escursionista reatino Enrico Ferri sull’Himalaya. L’ultimo dispaccio della spedizione al Massiccio del Kanchenzonga, terza vetta più alta del pianeta, arriva dalla sperduta Gangtok. Tutti i membri della spedizione K2014.it con l’alpinista e fotografo reatino Enrico Ferri sono finalmente ora a Calcutta. Dopo 46 giorni in Himalaya, la maggior parte dei quali in completo isolamento tra disagi e complessità, ghiacci e seracchi, nevicate troppo abbondanti nella notte e colossali montagne, gli alpinisti, in perfetta sintonia, possono dirsi felici e soddisfatti dell’impresa che li ha condotti ad esplorare la complicata ed enigmatica area sud-est del Kanchenzonga. “Ora che siamo fuori dalla foresta, tutti sani e ancora in forma, per difficoltà, isolamento, qualità e quantità delle montagne e dei ghiacciai attraversati, credo di aver guidato una delle più importanti e affascinanti spedizioni esplorative himalayane degli ultimi anni, ai piedi di un 8000”, dichiara il capo spedizione vicentino Alberto Peruffo. Tutti sono stati all’altezza dei loro compiti difficilissimi, “team eccezionale” lo definisce: oltre ad Alberto, c’erano l’indiano Anindya Mukherjee e Thendup Sherpa, il sudamericano Cesar Rosales, e gli italiani Francesco Canale, Enrico Ferri, Davide Ferro e Andrea Tonin. Durissimo e pericoloso il ritorno attraverso la foresta rivegetata dopo 40 giorni e nel massimo rigoglio della stagione. “Abbiamo girato in lungo e in largo 3 ghiacciai himalayani, esplorato integralmente in prima assoluta 2 grandi ghiacciai pensili (e i rami minori), fatto decine di migliaia di metri di dislivello e di chilometri lineari, scalato 7 cime vergini (2 molto difficili) e travalicato-raggiunto 7 colli (porte, intagli, passaggi tra ghiacciai), 3 dei quali mai toccati da piede umano. Il punto più alto dell’esplorazione? Non è una cima, bensì un colle alto 6.036 metri difeso da una muraglia di ghiaccio di 1000 metri che credo difficilmente sarà raggiunto da altre persone.” La squadra ha operato in una regione senza possibilità di soccorso e aiuto, senza comunicazioni satellitari, condizione imposta dal governo indiano. Anche una storta a una caviglia poteva creare un dramma. “Un suicidio probabile”, si legge, sarebbe stato il tentare la salita della Cresta Zemu al Kanchenzonga Sud, così come lo Zemu Gap, rivelatosi dopo complesse valutazioni e diversi tentativi una “roulette russa”. “Dal Colle Sella (5440 m), raggiunto in prima assoluta dopo aver travalicato l’affascinante e valangoso Colle Tilman (una slavina poco prima del nostro rientro ha cancellato le nostre tracce), tutto ci è apparso chiaro, filmando valanghe impressionanti e raccogliendo la notte fragori di crolli terrificanti”. E precisa: “era la prima volta che degli uomini entravano in questo paradiso di ghiaccio, “sospeso”. Dalla Porta della Rivelazione Perenne (6.036 m, altro intaglio di difficile accesso mai toccato da piede umano) abbiamo gettato uno sguardo sopra lo Zemu Gap scoprendo un passaggio di cui si intuiva la presenza, una chiave invisibile da altri punti di vista (…). Forse un giorno torneremo per studiare la percorribilità di quel filo. O per decretare definitivamente l’inaccessibilità della Cresta Zemu”. E conclude: “Possediamo ora materiale di notevole valore. Al ritorno ci daremo da fare per fornire una documentazione utile alla condivisione: un libro, un film, una presentazione”. Il 21 giugno presso l’Auditorium Varrone il CAI di Rieti organizzerà un’anteprima con la serata alpinistica dell’anno grazie alle foto uniche del reatino Enrico Ferri (nella foto, il primo da sinistra) Foto: CAI ©