È in corso in questi minuti, in diretta su Rai1 dal campo sportivo Paride Tilesi di Amatrice, la messa in ricordo delle vittime del sisma del 24 agosto 2016. Il vescovo di Rieti ha pronunciato l’omelia che pubblichiamo integralmente.
IV anniversario del terremoto
(Ap 21, 9b-14; Sal 145; Gv 1, 45-51)
“Da Nazareth può venire qualcosa di buono?”. La domanda posta a bruciapelo da Natanaele mostra la sua perplessa reazione di fronte al Messia, le cui origini dimesse non corrispondono alle sue attese. E diventa un’espressione proverbiale per dire che non ci si aspetta nulla. Verrebbe da dire: “E da Amatrice può venire qualcosa di buono?”… A parte l’amatriciana? Niente di buono visto che la ricostruzione è stata “sin qui caratterizzata da una lentezza non più sostenibile” (Legnini). Niente di buono, visto che molti sono altrove e non torneranno. Niente di buono, visto che tutto l’Appennino non ha “smosso” quanto da solo ha mobilitato il ponte di Genova (sic!). Eppure – esattamente come il Covid – 19 ha creato una netta cesura tra quello che è stato e ciò che sarà dopo – anche il post-terremoto può segnare uno spartiacque per il nostro Paese. Un passaggio, appunto, tra una vecchia idea di ricostruzione e una nuova idea di rigenerazione. Che cosa vuol dire, in concreto?
Vuol dire che la ricostruzione non basta se non si cura la qualità dei legami interpersonali, piuttosto che inseguire ciascuno gli interessi propri. Di sicuro, per tutto il Centro Italia l’investimento edilizio potrebbe rivelarsi una leva potente, ma a essere privilegiata dovrà essere la relazione e non la speculazione, la fiducia e non il sospetto, se si vuole davvero rinascere.
Vuol dire che la ricostruzione non basta se non si stabilisce un rapporto nuovo con l’ambiente naturale e storico che parla, interroga, ispira. Solo ritrovando l’incanto di questa terra si avrà lucidità sufficiente per immaginare soluzioni che reggano l’urto di una terra pur sempre ballerina, insieme capaci di produrre opportunità di lavoro e farsi laboratorio di ‘sostenibilità integrale’ per tutto il Paese.
Vuol dire che la ricostruzione non basta senza la necessaria contemplazione e cioè uno sguardo differente che modifica il nostro modo di vivere, trasformandolo dall’interno. E apre a uno slancio e a una fiducia che lasciano dietro di sé le tristezze della vita e il senso di impotenza o rassegnazione.
Dalle terre mutate dal terremoto, dunque, può venire qualcosa di buono. A condizione che non si abbassi lo sguardo. È tempo di rialzare gli occhi, senza sudditanza e senza arroganza. Non vogliamo morire di aiuti. Vogliamo semmai vivere di risorse. Le nostre, in particolare: l’acqua, quella che disseta Roma; l’aria ancor più rarefatta e pura ai tempi del virus; la terra, una sterminata possibilità di vita. Come scriveva un giovane talentuoso tanti anni fa, G. Leopardi: “La vita debb’essere viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio”.
Foto: Francesco PATACCHIOLA ©