(di Matteo Dionisi) C’è un filo diretto che collega Rieti con una delle metropoli più grandi al mondo: New York. Queste due città sono legate da una persona, il reatino Jonny Giordani, che nel lontano 2003 partì per la grande mela, dove si trovava già suo fratello, ma nei suoi programmi non c’era quello di rimanere in America. Jonny a Rieti aveva un ristorante, “La Pecora Pazza”, ma una volta arrivato a New York i suoi piani cambiano del tutto. Inizia a lavorare per Cipriani – una società privata di ristorazione presente in tutto il mondo – dove rimane per 4 anni. Poi arriva l’esperienza in uno dei locali più importanti della movida newjorkese, frequentato da gente dello spettacolo del calibro di Madonna: Boom.
La parte più importante però la facciamo raccontare direttamente a lui e lo ha fatto a RietiLife, con una lunga intervista. Jonny Giordani non ha parlato solo delle sue esperienze, ma anche del momento che sta vivendo l’Italia, l’America e altre nazioni a causa del Covid-19. Dei problemi che hanno i ristoratori, indicando una piccola strada per poter ripartire.
Giordani come inizia la sua storia a New York?
“Inizia nel 2003, quando decido di andare a trovare mio fratello che già si trovava li. Inizialmente dovevo rimanere solo per un po’, giusto il tempo per stare un po’ con lui e girare. Mia cognata faceva la bartender per Cipriani, era propria la prima sera che ero arrivato. Quando sono arrivato al bar c’era Denis Franceschini, lo chef del Cipriani dolci, e devo dire grazie a mia cognata per avermelo fatto conoscere. Ci siamo messi a parlare, lui è veneto, mi ha detto che a loro serviva una mano e da li è iniziato il mio percorso. Li sono rimasto per 4 anni”.
Dopo Cipriani cosa è successo?
“In quei 4 anni ho imparato molto, è stata una vera e propria scuola. Ho girato in altri ristoranti poi: la mia idea inziale era di mettere soldi da parte e poi con la mia ragazza di allora andare in Olanda per aprire una nostra attività. Poi però è arrivato posso dire l’apice con Boom. Uno dei locali più importante a quei tempi della movida newjorkese, dove erano arrivati a dirmi quanto volevo per lavorare. Li ho fatto la mia gestione della cucina, come la intendevo io, dopo aver superato un test ovviamente”.
Il 2014 per lei è un anno importante, perché apre il suo primo ristorante. L’idea da dove nasce?
“Ho lasciato Boom – in realtà il proprietario vendette il palazzo – e ho lavorato per un’altra compagnia. Io abito a Manhattan (quartiere Hell’s Kitchen) e li vicino a me c’era un locale molto piccolo e a mia moglie dicevo sempre che li ci sarebbe stata perfetta l’idea che avevo io, ovvero caffè e panini, una cucina street. Una mattina a lavoro ebbi un po’ di problemi con il manager della nuova compagnia, mi sono licenziato, sono andato dal proprietario di quel locale e l’ho preso. Si chiamava Scarpetta”.
Sappiamo anche di un secondo locale.
“Avevo in mente un secondo locale, anzi la mia idea era quella di un franchising. Ho dovuto cambiare il nome in “Jonny Panini”, perché in America c’era già uno “Scarpetta” e aveva circa 7 ristoranti. Contemporaneamente però era iniziata la malattia di mio padre, facevo la spola tra Italia e New York, e il mio socio d’allora alla fine decise di fare un passo indietro. Ho chiuso il primo locale e tenuto il secondo perché era più grande, tenuto in vinta fino alla scorsa estate”.
Arriviamo ai giorni nostri. Il Covid-19 ha costretto tutti ad abbassare la saracinesca. Alcuni giorni fa un flash mob in tutta Italia ha coinvolto bar, ristoranti che hanno accesso le rispettive luci dei propri locali. Cosa pensa di questo?
“Purtroppo non ha risolto nulla. Ho amici che sono in questo settore da anni e attendono solo che tutto questo finisca. Invece del flash mob, avrei aperto direttamente il locale, con mascherine e guanti, per dimostrare che siamo in grado di proteggere e di lavorare”.
In America che situazione c’è?
“Gli imprenditori hanno fatto una specie di rivoluzione. Via i tavolini da dentro i locali e a loro posto tutti frigoriferi. Si fa tutto cibo da asporto, i ristoranti non si sono mai fermati, questo concetto qui c’è da molti anni e tutti lo usano. Qui si sono ridisegnati, e può essere un modello per ripartire per molte città del mondo”.
In Italia per molte imprese gli aiuti da parte dello Stato stentano ad arrivare. Il vostro Governo invece come vi sostiene?
“Fai la richiesta, in base alle tasse, alle spese del 2019 e loro ti danno un sussidio: in parte a fondo perduto e l’altra parte da rimettere. Avevamo con noi 10 ragazzi che alla fine abbiamo dovuto lasciare andare, loro dalla settimana dopo hanno preso il sostegno della disoccupazione. Ci sono ritardi anche qui, però arrivano”.
Quale sarà il futuro della ristorazione? Il take away può essere una soluzione?
“Si, assolutamente. Qui si fa da molti anni, ma il concetto è quello di non fermarsi e mai e andare avanti. Bisogna rimboccarsi le maniche, cercare di modifiche quello che si faceva prima e reinventarlo. Noi italiani siamo creativi e ci invidiano questa cosa, mettiamola in atto”.
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