Riceviamo e pubblichiamo la lettera di un lettore che ha vissuto una piccola parte della sua vita assieme a Kobe Bryant. Ha giocato insieme a lui, come è capitato ad altri ragazzi reatini.
È domenica 26 gennaio 2020, appena terminato il derby della Capitale: da buon laziale tiro un sospiro di sollievo per essere usciti indenni da una partita in cui avremmo ampiamente meritato la sconfitta. Il tempo di andare sul canale 200 e in evidenza, a caratteri cubitali, leggo poche parole che fatico a mettere a fuoco, ho la vista appannata, il cuore accelera e una scossa gelata attraversa tutto il mio corpo… Non è possibile… Ho letto bene? Ma è veramente successo? È morto Kobe Bryant. Ho passato la serata anzi la nottata tra tv e internet per cercare di capire, nella speranza che ci fosse stato un errore, magari che ci fossero superstiti, ma ogni minuto che passava crescevano in me il dolore e la consapevolezza che ogni lontana speranza fosse vana. Uno degli sportivi più forti di sempre non era più tra noi: neanche il tempo di godersi “la pensione” e un destino bastardo se lo è portato via. A peggiorare in maniera esponenziale le cose, Kobe se n’è andato via in compagnia di sua figlia. Il più grande collegamento che gli era rimasto con la pallacanestro e in cui rivedeva ogni istante di una carriera irripetibile per un comune mortale. Provo grande cordoglio e mi unisco al dolore anche di tutte le altre vittime tra cui ragazzine coetanee della sua bimba prediletta.
Ho passato la notte a cercare di prendere sonno mentre a occhi sbarrati mi sono passati davanti momenti così lontani ma anche così nitidi che hanno fermato il tempo dandomi modo di riordinarli e in parte di riviverli con un realismo e una cura di particolari indicibili. Kobe ho avuto la fortuna di conoscerlo, di conoscerlo bene, perché frequentavamo la stessa scuola, perché abitavamo nello stesso quartiere, perché avevamo la stessa passione per uno sport, il basket, che poi è diventata la sua consacrazione e per me solo un periodo di passaggio, che mi distoglieva dalla mia vera passione: il calcio.
Me lo ricordo nella minuscola scuola di Lisciano, 7, massimo 10 alunni per classe, un’unica sezione, un gruppo di bambini che quasi diventava un’unica classe durante la ricreazione, mi ricordo che durava più di un’ora a volte e la passavamo in un piccolo cortile di 40 metri quadri correndo tutti dietro a un pallone ma per prenderlo a calci e non per trasformarlo in magia come di lì a poco avrebbe fatto lui. A calcio con noi non giocava, passava quei momenti con le sorelle a chiacchierare mangiando un panino più grande di lui e con quegli occhioni neri neri enormi che sembravano non approvare e non capire come si potesse sprecare del tempo a calciare quel pallone invece di palleggiarlo e trasformarlo in poesia.
Mi ricordo che a quei tempi giocavamo a minibasket insieme: si giocava il trofeo Motta, canestri bassi, pallone piccolo e tutti di corsa come una mandria di cavalli impazziti. Giocavamo in due squadre rivali; oddio non che ce ne fossero molte a Rieti in quel periodo, a memoria forse 4 o 5 squadre, giocavamo nello stesso ruolo se di ruolo si può parlare a quell’età, eravamo due playmaker, entrambi piccolini esili sguscianti, con lo stesso sguardo concentrato, con lo stesso difetto… non passavamo mai la palla a nessuno, volevamo vincere da soli, se avessimo potuto avremmo smarcato anche i compagni di squadra. Sì, ero bravo anche io, ma le tue movenze, la tua classe, il tuo livello di pensiero e la tua visione di gioco si vedeva subito. Di un altro pianeta. Qualità che ti avrebbero portato di lì a pochissimo verso altri e ben più ampi palcoscenici rispetto a tutti…
Mi tornano in mente le partite agli Stimmatini, la nostra parrocchia, a pochi passi da casa, con i nostri genitori che si raccomandavano di prendere il sottopassaggio per attraversare la pericolosa strada Terminillese e che noi puntualmente non ascoltavamo per non perdere neanche un minuto di pallacanestro; mi ricordo che arrivavamo piccoli come soldi di cacio e i più grandi che occupavano il campo non ci lasciavano giocare. Poi spesso qualcuno più generoso ci metteva uno per squadra, ma non per noi, ma perché tu eri il figlio di Joe, molto più di un’istituzione per il basket reatino. I canestri lì erano alti per noi quasi irraggiungibili, ma tu correvi come un fulmine con la palla attaccata, impossibile togliertela, la facevi già palleggiare in mezzo alle gambe e dietro la schiena, cosa che noi vedevamo solo in tv… Eri un predestinato e ogni passo che muovevi sul campo e con la palla tra le mani aveva un’altra caratteristica, era accompagnato da quel sorriso fisso, concentrato, in cui splendevano i denti bianchissimi a dimostrazione che tu avresti voluto solo quello dalla vita, giocare a basket ogni istante e dedicare come hai fatto la tua vita al tuo più grande amore.
Poi sei andato via, dopo poco più di un anno e ti ho rivisto solo una volta a Torino, durante un torneo del Campionato Propaganda, giocavi con le Cantine Riunite Reggio Emilia, io sempre con la Banca Popolare di Rieti, non ci siamo affrontati, gironi diversi e anche ambizioni diverse, ma ricordo il saluto e l’abbraccio che ci siamo scambiati, ormai avevi altre amicizie e altre prospettive. Ma quell’abbraccio lo conserverò sempre con me. Ho passato molto tempo in quei giorni per cercare di vederti giocare e a sprazzi ci sono riuscito. Beh, posso aggiungere che eri diventato un fenomeno, un giocatore già completo e di un altro pianeta, ma col sorriso notai una cosa… ancora non avevi imparato a passare la palla Kobe!
Da quel giorno non ti ho più visto, decine di volte avrei voluto provare a contattarti per vedere se ti fossi ricordato di me, me sapendo che sarebbe stato impossibile. Io non l’ho mai fatto, un po’ perché non sono una persona social, un po’ forse perché avevo paura che non mi avresti risposto, che non ti saresti ricordato di me. Oggi se potessi tornare indietro, forse lo farei…
Mancherai Kobe, mancherai a tutti, allo sport, alle persone che hanno fatto di te un mito e un modello da seguire, un esempio di classe, tenacia, abnegazione, umiltà e magnificenza.
Sei sempre stato un ragazzo diverso, speciale. E la tua luce seppur da lontano continuerà a brillare e il tuo ricordo sarà sempre immutabile per chi come me ha avuto la fortuna di conoscerti e condividere un piccolissimo pezzo della tua indelebile esistenza. Overtime. Adesso sono certo che sarai MVP anche nell’alto dei cieli!
R.I.P. LEGENDA!
firmato: un tuo amico!
Nella foto storica, Kobe insieme alla sorella e al padre Joe durante una festa a casa di amici a Rieti per gentile concessione della famiglia Occhipinti
Foto: OCCHIPINTI ©