Pioggia torrenziale, freddo che morde, tutti sotto una tenda diventata campo base, con i fiori, le corde e le scarpette d’arrampicata al posto dei tavoli: ad Amatrice, a due anni dal sisma, l’ultimo evento di Montagne in Movimento con il grandissimo arrampicatore Manolo è stato un pieno di emozioni per le oltre 150 persone che sono venute sacrificando la loro confort zone. Il CAI di Amatrice, con i riflettori mediatici spenti e i cumuli di macerie che spuntano dai muri di legno per occultarne la triste vista, ha invitato Manolo a presentare il suo bellissimo libro Eravamo immortali (Ed. Fabbri). Un titolo così non poteva restare inosservato in un luogo altamente simbolico come Amatrice.
E Manolo ha risposto con una generosità di parole, presenza, simpatia, rilassatezza dando il massimo dell’autenticità in punta di piedi, senza iperboli, come è lui davvero. E ha raccontato tanto, anche in modo divertente e autoironico, lui che solitamente è schivo: di arrampicata certamente, del suo libro moltissimo (tutte le copie sono state acquistate, e i lettori ne avrebbero comprate di più). Ha sottolineato quanto sia urgente la difesa dell’ambiente montano prima della catastrofe, l’importanza di unire talento, costanza ed equilibrio nell’alpinismo e nella vita. Ha ripercorso il tempo a ritroso, incalzato da domande che lo destabilizzavano un po’ sparigliando l’ordine del libro e la linea del tempo. Alcuni passaggi più coinvolgenti hanno riguardato la sua giovinezza: tra un destino certo e probabilmente infelice in fabbrica ha scelto il rischio, la libertà, l’inventarsi una strada, un modo di scalare, un modo di vivere randagio e allergico ai regolamenti, alle costrizioni, alle comodità fine a se stesse. Dietro di lui e dei suoi amici un po’ folli aleggiavano gli anni 70, la cultura on the road, la piazza, ma anche il disprezzo del pericolo, la velocità, il perdersi nell’alcool, la sfida, la protesta a prescindere per un mondo migliore. E’ stato un precursore in Italia dell’arrampicata libera. Ma oggi si rivela un bravissimo scrittore non professionista che rapisce lettori che non hanno mai arrampicato. Non si parla di gradazioni di vie (che noia), né della genialità autocompiaciuta dello scalare in modo totalmente diverso dai rocciatori della sua epoca, non c’è cenno al suo stile elegante – e impossibile ai più – di salire una placca in solitaria e senza protezioni.
La lettura del libro coinvolge perché è universale, ognuno ci trova un pezzo di sé. Parla della vita di un uomo e dei suoi sogni, dei suoi rovesci e del suo essere ostinatamente visionario e decisamente fuori dal coro. In nessuna pagina del libro c’è l’esaltazione, o l’ indicare di seguire quelle ambizioni; si descrive la dignità nell’essere poveri e si capisce che l’arrampicata gli ha salvato la vita. Si parla del rispetto della paura, del vuoto e della parete: chiodare significava tradire la roccia, ma quanto conforto dà una protezione anche se uno decide di non usarla, ha detto ad Amatrice. Dopo 5 anni dalla firma del contratto con l’editore, ha terminato quest’anno la sua ultima faticosa salita: quasi 400 pagine scritte con un solo dito di battuta sulla tastiera di un pc, visto che la sua grafia appariva una modulazione lineare indecifrabile. E il Mago, come da sempre viene soprannominato, continua a incantare. (di Ines Millesimi)
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