Di seguito l’omelia pronunciata dal vescovo Pompili in occasione della messa in suffragio delle vittime del sisma. Pompili officiò anche i funerali il 30 agosto 2016 pronunciando delle storiche parole (leggi).
A un anno dal terremoto (S Bartolomeo)
(Ap 21, 9b-14: Sl 145; Gv 1, 45-51)
È passato solo un anno, ma sembra una vita. Secondi interminabili hanno polverizzato legami e ambienti, svelando al contempo un coraggio e una resistenza che non immaginavamo. Fare un bilancio è possibile, ma rischia di essere provvisorio. Ciò che conta è ritrovare la linea dell’orizzonte. Il libro dell’Apocalisse la identifica con una città che scende dal cielo. L’immagine evocata non vuol dire attendere dall’alto, ma sapere che c’è un destino positivo verso cui siamo attratti. Chi vive rasoterra diventa presto miope e si lascia sopraffare dalla rassegnazione. Per rinascere, però, non basteranno eroi solitari. Anzi, a dirla tutta, una comunità senza eroi è una comunità eroica. È la fuga dalla propria quota di impegno, infatti, che lascia le macerie dove sono; impedisce di ritornare; abbandona i più. Qui non si tratta di attribuire colpe a qualcuno o distribuire medaglie a qualcun altro, ma di fare quello che ci spetta. Per concludere evangelicamente: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».
Ma dove trovare questo senso del dovere in mezzo alla selva dei nostri diritti? La pagina evangelica, per bocca di Gesù, traccia l’elogio di Natanaele con queste parole: «Ecco davvero un israelita in cui non c’è falsità». La ricostruzione sarà vera o falsa. È falsa quando procediamo alla giornata, senza sapere dove andare. Mi chiedo: siamo forse in attesa che l’oblio scenda sulla nostra generazione per lasciare ai nostri figli il compito di cavarsela, magari altrove? Rinviare non paga mai. Neanche in politica, perché il tempo è una variabile decisiva. La ricostruzione – al contrario – è vera quando evita frasi fatte («Ricostruiremo com’era, dov’era») e chiarisce che ricostruire è possibile. Ma non l’identico, bensì l’autentico. L’identità di un borgo storico è sempre dinamica e la storia non torna mai indietro. Ricostruire vuol dire sempre andare avanti. Anche Amatrice allora rinascerà. Ma è bene che conservi perfino le ferite, perché da quelle le future generazioni apprenderanno che la città, più che dalle sue mura e dalle sue vie, è fatta dall’ingegno e dalla passione di chi la edifica.
Lasciamoci ispirare dal cielo che ci circonda e invita ad allargare l’orizzonte, ad alzare lo sguardo rispetto alle nostre preoccupazioni immediate e ai nostri pregiudizi istintivi. Allora ci sorprenderemo a vivere, tra qualche anno, in un contesto che credevamo di conoscere, ma non aveva ancora svelato tutta la sua bellezza. Non basta nascere, bisogna imparare a rinascere. Questa è la fede. Ma anche la ricostruzione che verrà, se verrà.
Foto: Francesco PATACCHIOLA ©