Nelle sue ere il meeting di Rieti ha attraversato i territori dell’impegno, i continenti dell’attesa, le lande della gioia. Ora, dopo quasi mezzo secolo, è reduce dall’essersi misurato con un’assenza, con un vuoto, con un dramma che tutti quelli che lavorano, che vivono in quella terra, hanno sentito sulla propria pelle, nella propria psiche. Il terremoto ha sconvolto le pieghe di una provincia, ha scatenato il vento della solidarietà, ha creato anche il grande interrogativo: ci sarebbe stata resurrezione, sarebbero state lasciate alle spalle, da questa fenice sabina, provvisorie ceneri?
Dopo mesi di dubbi, di voci che si sono rincorse annunciando tutto e il contrario di tutto, il meeting rinasce per l’ostinata volontà del suo demiurgo e di tutti coloro che continuano a stargli a fianco, alcun dal principiare di questa avventura che, vista e riletta nel libro curato con affetto senza fine dal piccolo ed eternamente giovane Stefanino, appare per quel che è, una chanson de geste.
Quattro mesi dopo la forzata resa di un anno fa, Rieti fu ugualmente luogo di un pellegrinaggio che coinvolse un gruppo scelto ma anche vasto di vecchi amici: una sola gara in programma, sulla distanza lunga degli 80 anni raggiunti e superati, come un traguardo volante, da Sandro Giovannelli che intascò un paio di bottiglie di pregio e regalò un discorso contrappuntato da quelle esitazioni, aggirate e superate, che lo rendono sempre più simile al più amato tra i professori della letteratura inglese, mister Chips, docente e decano di un college in cui le generazioni diventano sedimenti di epoche, archivio di ricordi. Proprio come il meeting nato agli albori degli anni Settanta e giunto sino a noi in un’interminabile galleria di volti, di cifre che continuano a stordire, di sensazioni che hanno stordito.
Come mister Chips, Giovannelli ricorda tutto e ricorda tutti: Carl Lewis portato alla pura fonte di Cottorella, Michael Johnson più prosaicamente alle prese con i primi piatti sabini, Hicham el Guerrouj sempre illuminato da quello sguardo di cerbiatto che sarebbe piaciuto a un grande poeta Omar Kayan, Asafa Powell inciso, nella sua calligrafia, in una stampa ottocentesca in compagna dei grandi velocisti dell’età vittorian del professionismo, David Rudisha e il suo incedere principesco, di giovane transitata nella categoria di moran, guerriero.
Sfogliare con gli occhi e con la mente per rivedere e per stupirsi, rivisitare questa stanza virtuale dei gioielli delle corona e meravigliarsi che tutto questo sia stato raccolto in un così piccolo scrigno, grazie alla volontà senza confini, alla follia visionaria di colui che è stato chiamato in molti modi – l’impresario teatrale, il piccolo grande uomo – e che ha saputo tener duro in un mondo che cambia e regala sempre meno bellezze, in cui per i vecchi cavalieri del sogno c’è sempre meno spazio. Lui e la sua truppa, ancora in sella.
Giorgio Cimbrico
Foto: (Archivio) Rietilife ©