13 Aprile 2016. Una data, un giorno, un mercoledì qualunque per tanti, un mercoledì diverso per altri. Questa data rimarrà scolpita nella storia della pallacanestro mondiale, di chi ama e vive questo meraviglioso e incredibile sport aldilà dei confini, perché proprio in questo giorno una leggenda vivente del basket disputerà la sua ultima partita, l’ultima prestazione sempre e solo con la stessa maglia, quella dei Los Angeles Lakers con la quale ha giocato 16 anni, con oltre 1500 partite e quasi 40 mila punti.
Lui è il Black Mamba, all’anagrafe Kobe Bean Bryant, nato a Filadelfia il 23 agosto del 1978 ma cresciuto in Italia: da Rieti a Reggio Calabria, da Pistoia a Reggio Emilia. Sette anni passati a parlare italiano, a conoscere il basket e preparare quella carriera straordinaria simile, o giù di li, a quella scritta e vissuta da Michael Jordan, forse il più grande ma comunque icona ispiratrice proprio di Kobe, per le movenze, per il fascino, per la carriera, per quella forza naturale che ha stregato coast to coast gli states e non solo. Kobe a Rieti c’è stato due anni, dal 1984 al 1986, dove il padre Joe ha difeso la maglia della Sebastiani targata American Eagles prima e Ippodromi d’Italia poi.
È storia, raccontata da tutti, che il piccolo Kobe muovesse i primi passi dentro il palazzo dello sport di Campoloniano, cercando il pallone, il canestro e gli occhi di suo padre. L’asilo insieme alle sorelle a Lisciano, qualche litigio con i compagni… poi palazzo, pallone, canestro e lo sguardo di papà Joe. Cresce il piccolo Kobe solo ed unicamente con quella cosa, l’amore viscerale e morboso per la pallacanestro.
Gli riusciva tutto facile così come ci ha raccontato Luigi Ricci, storico giornalista che di basket ne sa quanto un’enciclopedia, durante la puntata di Basket Life. Ricci ha voluto raccontare qualche aneddoto sul piccolo che da lì a qualche anno sarebbe diventato un grande. “Non il più grande, magari il secondo – sottolinea Ricci – visto che per me il più grande di tutti è stato Jordan dal quale Kobe ha tratto ispirazione per la sua grandissima carriera”.
Ricci ricorda quando Kobe al palazzo stava sempre con il pallone tra le mani e appena possibile tirava… facendo quasi sempre canestro. “Ricordo una volta quando si stava disputando un torneo di mini basket tra due formazioni, una allenata da Gioacchino Fusacchia, l’altra da Claudio Di Fazi. Beh – aggiunge Ricci – in quella allenata da Di Fazi c’era Kobe che prendeva palla scendeva e faceva canestro, prendeva palla scendeva e faceva canestro, prendeva palla scendeva e faceva canestro… fin quando gli altri nove ragazzini, compresi i suoi compagni, non iniziarono a piangere visto che fino a quel momento non avevano mai toccato il pallone. Fusacchia, allenatore degli avversari, si avvicinò a Di Fazi invitandolo a togliere dal campo quel piccolo fenomeno altrimenti non si sarebbe potuto più giocare. Fu così – continua Ricci – che iniziò a piangere lui proprio perché fu fatto uscire. Si calmò grazie ad una coppa e ad una manciata di caramelle”.
Un altro ricordo è legato ad una partita disputata dalla Sebastiani a Roma, al Palaeur, dove Kobe passava lo straccio per asciugare il parquet. “Nell’intervallo –dice Luigi Ricci – prese un pallone ed iniziò con i tiri da ogni parte del campo segnando a ripetizione tanto che il pubblico presente, forse 10 mila persone, gli battè le mani tanto era stato bravo”. Alla domanda se un giorno Kobe potrà tornare a Rieti, Ricci è stato categorico. “Kobe a Rieti non ci tornerà mai, forse nemmeno se la ricorda. In Italia i suoi ricordi più vivi sono legati ad altre città, tipo Reggio Emilia dove ha tantissimi amici e dove ha frequentato la scuola media”.
Resta il fatto che da oggi per quel piccolo cresciuto per un po’ sotto le pendici del Terminillo, il basket rimarrà solo un piacevole e straordinario ricordo. Per tanti, specie quando smette un grandissimo, la pallacanestro finisce qui, con l’addio del Mamba diventato grande grazie a quel primo pallone toccato proprio a Rieti.
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