(di Sabrina Vecchi) Fabio Zavattaro, scrittore e vaticanista inviato speciale per il Tg1 Rai, sarà a Rieti venerdì 4 dicembre per i festeggiamenti in onore di S.Barbara patrona della città e riceverà alle 21.30 all’Auditorium Varrone il Premio di Cultura “Come Barbara” per il libro “Stile Bergoglio effetto Francesco”. Di seguito l’intervista concessa a RietiLife.
– Come è nata l’idea di questo libro, c’è stato un episodio particolare che ti è stato d’ispirazione?
Un libro nasce in tanti modi. In questo caso c’è stato un precedente libro su Francesco, scritto a un mese dalla sua elezione, e mi erano rimasti diversi appunti che potevano concorrere a costruire un secondo libro. Così è partita l’avventura, tenendo anche conto che Francesco, nell’anno trascorso tra i due lavori, aveva dato molti spunti in più. Così prende corpo questo volume che vive anche della vigilia del viaggio in Terra Santa. È forse proprio questa visita è stata la molla che mi ha spinto a scrivere.
– Quale è, a tuo avviso, la conseguenza principale che l’effetto Francesco sta provocando nella visione globale del mondo?
Credo che Francesco stia mettendo in primo piano tutta una serie di temi che forse avevamo messa da parte, dalla difesa dell’ambiente all’attenzione ai poveri, agli emarginati; dai diritti umani ad un diverso stile di vita. Alcuni esempi: il fenomeno dell’immigrazione che ormai è diventato tema principale delle cancellerie europee e non solo del vecchio continente. Mi si dirà: ma è il fenomeno è così vasto che non si poteva tenere gli occhi chiusi. È vero solo in parte, perché Francesco con il suo viaggio a Lampedusa, il primo in assoluto da Papa, con la sua visita al Parlamento di Strasburgo ha dato uno scossone alle sonnacchiose politiche europee e nazionali. O ancora la sua scelta di mettere in agenda le visite alle favelas e alle baraccopoli per parlare della ingiusta distribuzione delle risorse, fin dal suo primo viaggio internazionale in Brasile. Infine la sua tenace volontà di chiedere un rinnovato impegno per la riconciliazione e la pace, non solo a parole ma visitando luoghi simbolo della violenza, come Sarajevo, o la Repubblica Centroafricana, impegnata in un delicatissimo processo di transizione verso la democrazia, dopo anni di guerra e di violenze.
– In questa ampia operazione comunicativa messa in atto dal Papa c’è un’innovazione che ti ha maggiormente colpito come uomo oltre che come giornalista?
La sua volontà di utilizzare il dialogo con i fedeli, porre loro delle domande, chiedere in diretta delle risposte. Un dialogo che richiama il suo stile di pastore nella diocesi di Buenos Aires; uno stile Bergoglio che approda in Vaticano e diventa, in un certo senso, un effetto Francesco. Così si affaccia dalla loggia centrale della basilica vaticana e saluta la folla con un: “fratelli e sorelle buona sera”. Cinque parole che hanno rappresentato una novità stilistica, assieme all’augurio di buon pranzo, o buona sera. Ma la rivoluzione comunicativa non si ferma alle parole. Anche nei gesti, Francesco compie una vera rivoluzione, a partire dal non voler abitare nel Palazzo Apostolico ma nella più semplice stanza nella Casa di Santa Marta. Ancora scendere in autobus assieme ai cardinali che lo avevano eletto Papa. O infine, la scelta delle vetture semplici, utilitarie che non vuole siano blindate: che immagine eccezionale il Papa a bordo della cinquecento tra le grosse suv nere delle auto della sicurezza americana.
– Dov’eri in quello storico momento in cui Papa Francesco si affacciò per la prima volta al balcone? Da quel suo “buonasera” comprendesti subito che era solo il primo atto di un capitolo così incisivo della storia?
Ero ovviamente in piazza san Pietro, pronto a collegarmi e a fare i servizi per il telegiornale. Certo mi sorprese molto il suo semplice saluto. Ma mi sorprese ancora di più il suo chiedere, nel silenzio, la preghiera per la sua persona; e quell’invito a iniziare il cammino, il vescovo e il popolo di Dio. Gesti e parole che portano alla mente lo stile latinoamericano di Bergoglio, il suo essere pastore tra la gente, con “l’odore delle pecore” come ebbe modo di dire nella sua omelia il giovedì santo del 2013. Sicuramente gli mancherà la libertà con la quale si muoveva nella sua diocesi, il poter andare in autobus, camminare lungo le strade, visitare famiglie e persone che chiedevano la sua presenza. Tutto questo ora, da Papa, non riesce più a farlo.
– Nel tuo libro illustri la rivoluzione di Bergoglio anche a partire dai cambi al vertice effettuati alla Cei, tutti i giornali hanno parlato della nomina di monsignor Domenico Pompili a Vescovo di Rieti proprio come parte di questo progetto. Con che finalità credi che Francesco abbia voluto porre a capo della nostra Diocesi il numero tre della Conferenza Episcopale Italiana?
La nomina di monsignore alla diocesi di Rieti la leggo come la volontà di Francesco di mettere vescovi giovani e vivaci alla guida delle realtà locali. È anche la scelta di chiamare a un rinnovato impegno un sacerdote che ha svolto con discrezione e intelligenza il suo lavoro di portavoce della Cei.
– Fai un lavoro che inevitabilmente coinvolge anche a livello emotivo, come riesci a mantenere un contegno professionale anche nei momenti più toccanti? Ce n’è stato uno che ti ha emozionato più di altri?
Non è facile, perché quando si racconta un evento e, soprattutto, quando lo si racconta in diretta, non si riesce spesso a contenere l’emotività. Si tratta di avere la capacità di fermarsi un attimo e ricordarsi che la diretta continua e non c’è tempo di fermarsi. Ci sono sempre riuscito? No. Non sempre si riesce ad essere distaccati quanto basta per superare il momento dell’emotività. A me è accaduto, ad esempio, nel momento del racconto della morte di San Giovanni Paolo II e quando, il giorno della sua beatificazione presieduta da Papa Benedetto, ho visto salire il telo che nascondeva il volto del Papa venuto dall’est. Lo confesso: per un buon minuto e mezzo non sono stato capace di dire una parola. Fortuna che c’era un collega a fare da conduttore di quell’evento, il quale, capita la situazione, ha cercato di continuare a parlare in attesa che riuscissi a tornare in grado di parlare. Ancora oggi lo ringrazio: senza quel suo aiuto forse non sarei stato capace di riprendere la diretta.
– Un buon vaticanista può essere non credente?
Un buon vaticanista è colui che racconta con intelligenza, obiettività, e verità i fatti che è chiamato a commentare. L’essere credente è un valore aggiunto perché consente di capire e spiegare meglio cerimonie e avvenimenti. Forse c’è anche una maggiore volontà di cercare e capire le realtà che il Papa va a visitare, ad esempio nei suoi viaggi internazionale e italiani. C’è anche una maggiore disponibilità a interrogarsi sui temi che il Papa mette in agenda. Per parlare di sport non bisogna necessariamente essere stati un campione in qualche attività sportiva; per parlare di politica interna non occorre essere un politico. Così il vaticanista forse deve studiare di più per comprendere i meccanismi di una chiesa dove la memoria è parte essenziale del racconto e dove molto spesso sono più importanti i silenzi delle parole. Capire tutto questo non sempre è facile, ma è il compito proprio di un giornalista. Foto (archivio) RietiLife ©