(di Nazareno Orlandi, da ilmessaggero.it) Dagli allenamenti di via San Liberatore al fango del Fassini, dalla serie A degli anni ’80 alla nazionale a Rieti. E’ una storia reatina di botte e sani principi, birre e rispetto, ossa rotte e sentimenti intatti, una galleria di personaggi infinita, generazioni di rugbisti che si legheranno come fossero trincerati nella stessa mischia domani pomeriggio, in una serata amarcord al teatro Flavio Vespasiano, dalle 17.30, momento clou dei festeggiamenti per il cinquantenario del rugby a Rieti.
Cinquant’anni di mete amarantocelesti. Cinquantatré, per l’esattezza, ma gli Old, i vecchi saggi, hanno deciso che era arrivato solo ora il momento giusto per celebrarli. Cinquant’anni e spiccioli dal 1961, quando Paolo Vaccari, rugbista, romano, ma originario di Morro Reatino, scelse di fondare una squadra a Rieti, illustrò il progetto al Circolo di Lettura del Flavio e raccolse le prime 62 adesioni. Lo fece insieme ad Antonio Fabiani. Non si presentò nessuno ai primi allenamenti in via San Liberatore, davanti alla palestra del liceo Classico, dove poi sarebbe iniziata anche l’epopea del basket, molto più romanzata in città.
I pionieri, all’inizio, fecero fatica, facevano collette per raccogliere fondi. La passione che cresce con gli anni, milizie di ragazzacci senza paura che si stringono, si prendono a sportellate, mangiano polvere e sudore. C’è il racconto del tessuto industriale della città, sulle maglie raccolte nella mostra sotto gli archi del Municipio, aperta tutto il giorno: la Snia Viscosa, la Texas Instruments, la Centralmotor. E la Brina, grazie a Renato Milardi: come nella pallacanestro, di cui il rugby è tipo un fratello poco coccolato. Ma anche, per gli sporchi-brutti-e-cattivi, c’era la serie A. Quella vera. Una stagione sola. Era il 1981. Vittoria ai playoff in un memorabile spareggio a Calvisano, con la camminata nervosa dello storico presidente Fulvio Iacoboni, che per la tensione non vide la partita, ma rimase fuori dallo stadio e cercò tutto il tempo un ristorante per comprare vino: serviva per i festeggiamenti. Una stagione contro le grandi piazze di Treviso, L’Aquila e Roma. E poi gli anni degli stranieri. Il fenomeno australiano Tim Lane. O quella volta di Francia-Australia, vista dagli Arieti in tv di sabato pomeriggio, con l’estremo degli wallabies Greg Martin – oggi prima voce di Fox Sport in Australia – che era in campo e incredibilmente è stato ingaggiato da Rieti il giorno dopo, tramite l’amico che giocava a Colleferro. Erano gli anni dello spostamento al campo di Villa Reatina, quando il Fassini si rifaceva il look per diventare la casa del rugby. E poi Italia-Scozia nel ’96, allo stadio, con una tribuna sola, la partitissima voluta dagli Arieti. Vittoria (storica) contro gli scozzesi, l’autobus a due piani in piazza del Comune, l’Europa che scopre gli azzurri ovali e comincia a considerarli degni del Sei Nazioni. Un momento chiave, come racconta Valerio Vecchiarelli, giornalista ed ex giocatore, nel libro «50 – Storie di Uomini e di Rugby», che riannoda i fili di cinque decenni. «Questa squadra, fino a un certo punto, ha rappresentato un mondo a sé – racconta. – La città li ha sempre visti con scetticismo: i pazzi del rugby, ci chiamava la gente. La svolta c’è stata con Italia-Scozia, quando i reatini hanno cominciato a conoscerci. Prima era uno sport per pochi: i matti e le loro mamme che avevano paura di portare i figli nel fango del Fassini». Chi se n’è andato e chi c’è. Dino Giovannelli, giocatore, allenatore e poi dirigente. Mimmo Umbertini e Filippo Carucci. L’azzurro e campione d’Italia, Alfredo De Angelis, i nazionali giovanili Franco «Stellino» De Angelis, Renzo Ammiraglia, Alessandro Fagiolo, Alessandro Gunnella e Gabriele Formichetti. Loro, e altri centinaia di quei «matti», anni e anni con quel pallone «sbagliato» tra le mani, quello che rimbalza male e non bisogna tirare in un canestro ma che, della città, ha costruito i muscoli. E i valori.
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