Corriere.it si occupa degli allevamenti di maiali che ottengono la denominazione Igp ma sono allevati nell’est. Tra le varie interviste, il Corriere ascolta anche il punto di vista del reatino Giuseppe Martellucci.
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(da Corriere.it, di Francesco de Augustinis) Camion dopo camion, con carichi di cosce, carni congelate, animali vivi, attraversano le frontiere di mezza Europa prima di raggiungere la loro destinazione. Si tratta di centinaia di migliaia di maiali nati e cresciuti in Romania, in Ungheria, in Polonia e in altri paesi dell’Est, oppure in paesi che non fanno neanche parte dell’Unione Europea, come la Turchia. Maiali allevati con standard piuttosto diversi da quelli italiani o europei, ma che finiscono anche nelle filiere dei nostri salumi tipici contrassegnati dal marchio europeo Igp, acronimo di Indicazione Geografica Protetta. Un passo prima del Dop, per intenderci. Nessuna limitazione – «Non vi è limitazione geografica all’origine dei suini», si legge a chiare lettere nel disciplinare di produzione del Prosciutto di Norcia, uno dei più noti tra le 13 produzioni Igp relative al suino riconosciute all’Italia. Il documento, come qualsiasi disciplinare, indica con precisione i criteri che deve rispettare la coscia dell’animale (misure, caratteristiche), la zona di produzione e le modalità di lavorazione e conservazione delle carni e, in alcuni casi come quello di Norcia, gli standard di allevamento (in particolare in riferimento al tipo di mangimi). Ma nessun vincolo in merito all’origine delle carni. Allo stesso modo, nessuna indicazione precisa di origine arriva dai disciplinari degli altri Igp nostrani, dalla Coppa di Parma allo Zampone di Modena, dalla Mortadella di Bologna alla porchetta di Ariccia, dal Lardo di Colonnata allo Speck dell’Alto Adige, dal Cotechino di Modena al Prosciutto di Sauris. Questione di tracciabilità – Le carni suine sono tra le meno tracciabili in Europa. Da dicembre 2014 entrerà in vigore il nuovo regolamento comunitario proprio sulla tracciabilità, risultato di un lungo braccio di ferro tra politica e lobby: la normativa imporrà etichette più dettagliate alle carni fresche suine, uniformandole alle regole già previste per le carni bovine, imposte dai tempi della mucca pazza. Lo stesso obbligo non varrà però per i salumi, lasciando campo libero alla delocalizzazione all’estero. Nonostante l’imponente export di salumi italiani, da anni i rapporti Istat parlano per l’Italia di un settore in deficit, schiacciato da «ingenti quantitativi di carni fresche e congelate importate». I numeri più recenti indicano che circa la metà della carne suina utilizzata nel Paese è di importazione estera. Dei capi italiani, la stragrande maggioranza (oltre il 70 per cento di circa 12milioni, nel 2012) sono destinati ai prodotti di origine protetta (Dop), come il prosciutto di Parma: gli unici che impongono l’utilizzo di capi nati e cresciuti all’interno dei confini nazionali. Come a dire che per tutto il resto – compresi gli Igp – ci sono altissime probabilità di avere a che fare con le più economiche carni di importazione. «Negli ultimi anni si è visto un calo del numero di animali, in Italia», afferma Giovanna Parmegiani, presidente Carni Suine per Confagricoltura. «Nell’ultimo anno siamo passati da 650 mila scrofe a 500 mila scrofe, con un calo molto importante». Risalgono agli scorsi mesi le immagini degli allevatori di Coldiretti, che fermavano camion carichi di cosce di maiale al valico del Brennero o manifestavano di fronte a Montecitorio per chiedere maggiori tutele. «Due prosciutti su tre venduti oggi in Italia provengono da maiali allevati in Olanda, Danimarca, Francia, Germania e Spagna senza che questo venga evidenziato chiaramente in etichetta, dove non è ancora obbligatorio indicare l’origine», sostiene la Coldiretti, che lamenta anche in Italia «la possibilità di utilizzare le cosce di maiale congelate per produrre il prosciutto crudo stagionato». Le nuove frontiere – Sebbene, come denuncia Coldiretti, la maggior parte della carne suina importata in Italia risulti ufficialmente provenire da paesi come Germania e Olanda, la produzione in Europa si sta spostando sempre più verso Est. Nell’ultimo decennio le multinazionali del settore hanno investito miliardi di euro in Est Europa, spesso con il sostegno economico dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Ebrd). Le corporazioni hanno rilevato in questi paesi gli immensi stabilimenti in disuso, eredità degli anni del comunismo, attratti dai costi minimi, da labili controlli, da normative su ambiente, lavoro, standard di allevamento e benessere animale molto più morbide, e dalla prospettiva di entrare nel mercato comunitario. «Col nuovo millennio la Comunità Europea ha fatto il cosiddetto pacchetto igiene», afferma Massimo Chiovoloni, medico veterinario e dirigente per l’Igiene e la prevenzione nella zootecnia per la Asl di Perugia. «Una serie di regolamenti comunitari che gestiscono tutta la filiera della sicurezza alimentare, da chi coltiva i campi ai produttori di mangime, fino al ristoratore». «Tecnicamente, – continua Chiovoloni – un paese per entrare nella comunità deve dare le stesse garanzie che danno gli altri paesi… nella pratica c’è qualche problema: noi rispettiamo certe regole, da altri paesi, in realtà, non è sempre così, o perché sono appena entrati, o perché ancora non sono entrati. Però prendiamo dei prodotti e questo ovviamente porta difficoltà».
Su tutte, la multinazionale americana Smithfield Foods, primo produttore di carne suina al mondo, ha letteralmente colonizzato in pochissimi anni paesi come la Polonia o la Romania, nel frattempo «abilitati» all’export in tutta l’Ue, con decine di maxi-stabilimenti intensivi. La stessa Smithfield è anche il maggiore azionista del colosso spagnolo Campofrio Food Group, leader europeo per le carni confezionate, che a sua volta è proprietario del più noto marchio della norcineria Italiana, Fiorucci. Nel 2013 la Smithfield è stata essa stessa oggetto di una compravendita, rilevata per la cifra record di 4,7 miliardi di dollari dal gruppo cinese Shuanghui International. Un colosso che oggi ha cambiato nome nel più occidentale «WH Group» e che è di gran lunga il principale produttore di carne suina al mondo. Dalla Turchia all’Igp – La «colonizzazione» dell’Est Europa, insieme a sistemi di “nazionalizzazione” delle carni che si basano sulla sosta dei capi anche per pochi giorni in un dato paese, è tra gli elementi che hanno reso l’Europa e l’Italia molto più permeabili anche all’import di carni extra UE, ufficialmente consentito solo da pochissimi paesi come il Cile (da cui nel 2013 abbiamo importato 1,6 milioni di tonnellate di carne di maiale congelata) o gli Stati Uniti. È questa una delle chiavi di lettura che spiega quanto affermano, chiedendo di restare il più delle volte nell’anonimato, un allevatore a Norcia, un allevatore della provincia di Perugia e un intermediario che opera nel settore carni a Roma, che a proposito della cittadina umbra simbolo della produzione di salumi sostengono come «a Norcia i maiali arrivano dalla Turchia». Un caso limite, quello dei maiali turchi, che indica un fenomeno in cui dietro una facciata di tipicità si celano prodotti dalle origini più disparate. Un caso che richiede ancora più attenzione, se si considera il ritmo frenetico in cui anche il business delle carni sta evolvendo nel mondo. Basti pensare come solo nelle ultime settimane la Cina abbia intrapreso un fitto export di carne suina verso la Russia, e come lo scorso mese una delegazione della provincia dello Yunan, in Cina Meridionale, ha incontrato proprio le autorità locali di Norcia per avviare «un rapporto di cooperazione per lo sviluppo di attività commerciali (…) in particolare nella filiera del suino». Foto: CORRIERE TV – RIETILIFE ©